Chiuso per genocidio del popolo palestinese

Sarebbe bello parlare solo di calcio, ma non si può. Ci fermiamo. Chiudiamo per genocidio. Quello del popolo palestinese.

nazionale palestineseFoto della nazionale palestinese
Articolo di Giovanni Salomone12/05/2025

Sarebbe bello parlare di calcio. Parlare solo di calcio. Lo si potrebbe pure fare. In molti lo fanno. Quasi tutti. Noi no. Non ci riusciamo. Andiamo in giro, con un libro in mano, supplicando: non la cronaca ma l’atmosfera! E allora quando l’atmosfera diventa buia, sporcata di sangue d’innocenti da una cronaca che supera qualsiasi forma di umana comprensione, in quel momento, in quel preciso momento, bisogna chiamare le cose col proprio nome. Operare una sorta di primordiale igiene lessicale e usare le parole giuste per quello che si vede, che si vede in maniera così nitida che se non lo vedi è perché non lo vuoi vedere e allora la parola giusta è: complice. Se non lo vedi sei complice.

In Palestina si sta compiendo un genocidio. La parola è questa: genocidio. La pianificazione di uno sterminio. Ripulire un territorio dalla sua stessa popolazione, metro per metro, caseggiato per caseggiato, essere umano per essere umano.

Ci vengono i brividi per una rabona. Ci vengono i brividi per un genocidio. Come è strano il genere umano, capace di assorbire tutto e il contrario di tutto e andare avanti.

E invece no. Qui non si va avanti. Bisogna fermarsi. Chiudere tutto per genocidio. Avere il coraggio di riprendere in mano il diario di Anna Frank, che quando eravamo bambini abbiamo letto a scuola, e guardare dentro Gaza e leggerli ora i diari dei bambini di Gaza, ora, prima che tutto diventi storia. Un’altra parola: bambini. 17.996 bambini ne ha uccisi lo stato di Israele. Diciassettemilanovecentonovantasei. Provate a contarli, sulle dita, uno alla volta. 17.996, come fossero 1636 squadre di calcio spazzate via dal futuro, cancellate, chissà quanti gol sottratti alla storia, e quante poesie, quanti sogni, quante speranze.

Scriviamo di calcio. Cerchiamo le parole giuste per raccontarlo. Ci perdiamo notti e giorni, fino a quando ci sembra che possa andar bene, che quella storia sia pronta per essere raccontata. Le lettere, una dopo l’altra, a comporre qualcosa di musicale, di armonico, qualcosa che possa portare chi legge proprio lì, su quel campo di calcio, tra quei ciuffetti d’erba in attesa del sospiro, del boato, dell’urlo di gioia.

Garrincha era un bambino con la poliomelite. Inadatto a giocare a calcio. I bambini nascono per essere felici, diceva Salvador Allende. Una parola: felicità.

Noi, da questo punto di vista occidentale che ci va stretto, dentro un privilegio acquisito per diritto di nascita, vogliamo dire a voi, che vi fermerete davanti ai nostri libri, che parlerete con noi e che con noi vi emozionerete parlando, che noi sappiamo quello che sta accadendo. Che il mondo non si esaurisce in una partita di calcio e che anzi il calcio è una parte di questo mondo e questo mondo o lo guardiamo tutto o non serve a niente.

Chiamiamo genocidio lo sterminio del popolo palestinese. Chiamiamo genocidi coloro che si stanno macchiando del delitto di cancellare un popolo.

Scriviamo di calcio. Raccontiamo di calcio.

Ma la nostra patria è il mondo intero.

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