Riflessioni sul razzismo nello sport: l’importanza della voce dell’Io

Contro il razzismo nello sport. Serve demolire la barriera della differenza partendo dall’io, anche se non sempre è la voce di Dio.

Koulibaly
Articolo di Roberto Beccantini18/10/2021

© “KOULIBALY” – FOTO MOSCA

Contro il razzismo nello sport. Cosa dire, lo sappiamo tutti: discuterne già in famiglia e fin dalle scuole, da bambini; non abboccare alle rozze seduzioni di una destra sempre più xenofoba. Cosa fare, viceversa, non lo sapremo forse mai. C’è chi propone di incidere sulle classifiche; chi, al contrario, di premiare le curve virtuose; e chi, infine, di riprodurre il tradizionale tariffario: sospensione della partita, squalifica delle sezioni «infette» dello stadio e poi, di fronte a eventuali e beceri bis, dell’arena tutta.

Greta Thunberg parlerebbe, a ragione, del solito «bla bla bla». Che poi, a pensarci bene, resta il nemico peggiore: aggredire il problema pensando che la soluzione dipenda dagli altri, prima che da noi. Invece dipende da noi, prima che dagli altri. Noi, intesi come cittadini. Dare l’esempio, e solo dopo, titolari almeno di questo impegno, pretenderlo dagli esterni. Il progresso tecnologico ha moltiplicato la velocità della parola, delle immagini. Da seduti, ci sembra di avere il mondo in mano. Per farne cosa, bo’. Il lavoro è la bilancia sulla quale saliamo per pesarlo: e dal momento che l’Africa, scoppiata, si è aperta, i flussi migratori hanno stravolto i nostri sbadigli, le nostre penniche. Quando nacqui, nel dicembre del ‘50, eravamo «solo» noi (nativi) o quasi. Chi nasce oggi, non più. Dovrebbe essere più bello, perché più «vario». Invece no: rischia di essere una bomba.
Lo sport dovrebbe rappresentare un ponte, non un muro. Il caso di Kalidou Koulibaly, insultato a Firenze, non è isolato. Piccole minoranze finiscono per essere maggioranza. Il web offre materiale raccapricciante per «giocare» con la pelle. Il nero della nostra squadra è un eroe; il nero della squadra avversaria, un nemico. Diverso due volte. Un dettaglio da non trascurare. Siamo un pugno di campanili. Ognuno tira l’acqua al suo mulino, sordo e grigio come certe «aule» di un passato che il pensiero unico coccola, geloso.

Ci sono i protocolli. I lodi. Le telecamere a circuito chiuso. I Daspo, a tempo o a vita. Le squalifiche. Eppure ci si ricasca spesso. Non bastava il contrasto fra Nord e Sud, raccontato in tutte le salse: dal grave al greve, dal comico all’infantile. Ecco il razzismo. Si combatte a forza di like, spopola una generazione trasversale di giovani/vecchi che, grazie al «passamontagna» del nickname, porta avanti una vigliaccheria intellettuale di fresco e ambiguo conio. Sono i «leoni da tastiera», forti dell’anonimato. Fomentano e sparano nel mucchio, sicuri di farla franca.
E poi il lessico. Una trappola. «Quando mi davano del «figlio di», si chiede Marco Materazzi, «perché Lilian Thuram non fiatava?». Il francese gli ha risposto così: «L’uscita conferma che [Marco] non ha capito e non capisce cos’è la discriminazione. Ecco perché bisogna educare i giocatori. “Figlio di puttana” rimane un insulto personale. su di te. Ma se uno ti dice “sporco nero”, offende tutti». In teoria, anche i bianchi. «Quando esci dal campo e vai in giro, lo fai con il colore della tua pelle. E se sei considerato un diverso, non sarà mai facile. Per evitare che qualcuno si ponga domande come quella di Materazzi, serve demolire la barriera della differenza, urgono libri ad hoc. Leggere, studiare, aprirsi».
Partendo dall’io, anche se non sempre è la voce di Dio. Coraggio.

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